la poesia del cuore

 

Giosuè Carducci

 

« Non solo in riconoscimento dei suoi profondi insegnamenti e ricerche critiche, ma su tutto un tributo all'energia creativa, alla purezza dello stile ed alla forza lirica che caratterizza il suo capolavoro di poetica »

(Motivazione del Premio Nobel)

 

 

Giosuè Alessandro Michele Carducci


Medaglia del Premio NobelNobel per la letteratura 1906

Giosuè Alessandro Michele Carducci (Valdicastello27 luglio 1835 – Bologna16 febbraio 1907) è stato un poeta e scrittore italiano.

 

·                                 Un poeta ed una poesia che amo e che ci fanno tornare in mente la nostra infanzia e la nostra giovinezza passate insieme.

 

…  alla signora Sorrida con tanta stima ed affetto

Pietro Campanelli

 

Giosuè Carducci

Biografia

L'infanzia

Nacque nel 1835 a Valdicastello (Lucca) da Michele e Ildegonda Celli, ma nel 1839 la famiglia si trasferì a Bolgheri, dove il padre implicato nei moti carbonari del '31, esercitava la professione di medico condotto. Tra questi paesaggi, il cui ricordo si riscontrerà in molte delle sue poesie, il giovane Giosuè trascorse felicemente la propria infanzia fino al 1848, quando il padre dovette trasferirsi perché accusato di attività antigovernativa. A Bolgheri e a Castagneto,Carducci intraprese i primi studi e fece le prime letture, sotto la guida del padre dotato di una buona cultura classica.

Gli studi

Nel 1849 la famiglia si stabilì a Firenze dove Giòsue compì gli studi presso gli Scolopi acquisendo una buona preparazione in campo letterario e retorico e nel 1853, dopo aver vinto il concorso per un posto gratuito presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, si iscrisse alla Facoltà di lettere dove nel 1855 conseguì la laurea con una tesi sulla poesia cavalleresca e nello stesso anno pubblicò le sue prime poesie sul mensile "L'Arpa del popolo".

L'insegnamento

Nel 1856 dopo essersi trasferito a Santa Maria a Monte, piccolo borgo nella provincia di Pisa, insegnò retorica presso il ginnasio di San Miniato vivendo una intensa esperienza che riporterà poi nel 1863 nelle pagine di carattere autobiografico: Risorse di San Miniato. Nel corso di questo anno il poeta andò affermando la sua poetica anti-romantica e con il gruppo di amici formato da Giuseppe Chiarini (1833-1908), Ottavio Targioni Tozzetti (1833-1899), Tommaso Gargani (1834-1862) ed Enrico Nencioni (1837-1896) fondò la società letteraria degli Amici pedanti, dal taglio fortemente classicistico e anti-romantico, intervenendo in modo battagliero nelle discussioni tra manzoniani e anti-manzoniani ai quali ultimi appartiene.
Nel luglio dello stesso anno ottiene l'abilitazione all'insegnamento, ma non viene ratificata dal governo granducale la sua designazione per concorso al ginnasio di Arezzo.

Le idee politiche

Sospettato dalla polizia per le sue idee filo-repubblicane, il 9 aprile 1858 venne sospeso dall'insegnamento e per la durata di tre anni visse a Firenze guadagnandosi da vivere con il lavoro presso l'editore Barbera del quale curava l'edizione dei piccoli volumi della "Bibliotechina Diamante" e dando lezioni private. Negli anni del trasformismo il poeta conquistò un posto centrale nella stuttura ideologica e culturale dell'Italia umbertina, giungendo ad abbracciare le idee politiche di Francesco Crispi.

I lutti

Colpito nel giro di due anni da due gravi lutti - nel 1857 morì il fratello Dante, morto suicida nella casa santamariammontese del poeta secondo la versione ufficiale, ma forse ucciso accidentalmente dal padre dopo un litigio secondo una più recente versione, e nel 1858 lo stesso padre si suicidò per il dolore o forse per il rimorso; entrambi vennero sepolti nel vecchio cimitero del paese dove oggi sono ancora visibili le lapidi - Carducci trascorse un periodo di grande sconforto che espresse attraverso alcune sue liriche ricordando il "colle" ove ebbe luogo la tragedia, ovvero Santa Maria a Monte, ma nel 1859 il matrimonio con la cugina Elvira Manicucci, dalla quale ebbe quattro figli (Dante, Bice, Laura e Libertà), lo aiutò a superare il dolore dei lutti. Fu di nuovo colpito da gravi lutti familiari nel 1870 con la morte della madre e del figlio Dante, a cui dedicò la poesia "pianto antico".

Pianto antico

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

 
  « No, non è vero, che è meglio che sia morto: me lo volevo crescere e educare a modo mio, doveva sentire, pensare, lottare anche lui per il bene e per il vero. No, no: scambiare in sul primo entrar nella vita l’avvenire dell’esistenza per l’oscurità del non essere non è bene… »
 
(Lettera di Giosuè Carducci a Ferdinando Cristiani, 14 novembre 1870)

Pianto antico è una poesia di Giosuè Carducci dedicata al figlio Dante. Scritta nel 1871 è il XLII componimento delle Rime nuove (1887).

Indice

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I lutti familiari [modifica]

Il 9 novembre 1870, il piccolo Dante, a soli 3 anni di età, era morto, molto probabilmente di tifo, nella casa paterna di via Broccaindosso a Bologna. Non era infrequente in quei tempi la mortalità infantile dovuta spesso alle ancora mancate conoscenze della medicina.[1]

Dante era stato il primo maschio, dopo Beatrice e Laura, nato dopo il matrimonio di Carducci con Elvira Menicucci. L'ultima figlia Libertà nascerà nel 1872.[2]

Nel febbraio dello stesso anno 1870 il poeta aveva perso anche la madre Ildegonda Celli mancandogli in appena nove mesi quella che gli aveva dato la vita e quello a cui egli l'aveva trasmessa.

  « ...A febbraio la mia povera mamma; ora il mio bambino; il principio e la fine della vita e degli affetti. »
 
( (lettera di G. Carducci al fratello Valfredo, 10 novembre 1870))

Del primo grave lutto così scrisse al fratello:

  « Ella riposa, e non sente più nulla. Pace! Pace! Ma non è finita, non finisce, non finirà mai, la memoria e il desiderio nostro di lei. Io, che tutti i giorni quasi e spesso nei sogni penso e riveggo il nostro fratello morto, io ricorderò sempre lei, la rivedrò sempre; la ricorderò, la rivedrò, anche, spero, all’ultimo punto della mia vita »
 
(lettera di G. Carducci al fratello Valfredo, 3 febbraio 1870)

Nella lettera sopra citata Carducci accenna ad un'altra tragica morte («...riveggo il nostro fratello morto...»): il suicidio nel 1857 del fratello appena ventenne Dante,[3] del quale il poeta aveva voluto mantenere il ricordo proprio nel nome del figlio.

Di questi giovani morti dallo stesso nome e così vicini Carducci celebrò ancora le vite interrotte prematuramente nel sonetto Funere mersit acerbo, scritto poco tempo dopo la morte del figlio.

«È il fanciulletto mio, che a la romita
tua porta batte: ei che nel grande e santo
nome te rinnovava, anch’ei la vita
fugge, o fratel, che a te fu amara tanto.»
(da Rime nuove, XI)

Il testo [modifica]

L'albero a cui tendevi
La pargoletta mano,
Il verde melograno
Da' bei vermigli fior

Nel muto orto solingo
Rinverdì tutto or ora,
E giugno lo ristora
Di luce e di calor.

Tu fior de la mia pianta
Percossa e inaridita,
Tu de l'inutil vita
Estremo unico fior,

Sei ne la terra fredda,
Sei ne la terra negra;
Né il sol piú ti rallegra
Né ti risveglia amor.

Analisi dell'opera [4] [modifica]

Fiore di melograno

La metrica della poesia è quella di una breve ode in quartine di settenari, secondo lo schema ABBC (il quarto verso sempre C, e sempre tronco).

Il simbolo del melograno [modifica]

Il pianto del padre è antico come il dolore che gli uomini di tutti i tempi hanno provato di fronte alla morte. Emerge dal passato anche la figura del melograno, antico simbolo di fertilità, di rinascita e resurrezione.[5]

Vita e morte [modifica]

Questo cespuglio, che al termine dell'inverno appare secco e arido, tale da sembrare ormai morto, ecco che invece ricomincia a nascere al calore del sole primaverile e a mettere quei bei piccoli fiori, di un rosso intenso come quello del sangue vitale, che la giovane vita del piccolo Dante invano ha cercato di afferrare. Il melograno resusciterà a nuova vita non così il bambino ormai per sempre nella terra fredda e nera.

Il gioco dei termini usati nella poesia esprimono il netto contrasto tra la vita ("luce", "calor") e la morte ("pianta... inaridita", "terra fredda", "terra negra") tanto più dolorosa quando coglie una "pargoletta mano" non più capace di trattenere nelle sue mani la vita.

Dante era stato l'ultimo, unico frutto, di una pianta, di quella ormai inutile vita che Carducci sente non più scorrere in lui: ormai non piange neppure più, è completamente inaridito perché la sua vita è stata spezzata dalle radici.

Quel piccolo orto, prima luminoso e sonoro dei rossi colori del melograno e dei giochi del bimbo ora appare al poeta troppo silenzioso e solitario ed ormai né il sole, né l'amore potranno farvi ritornare la vita.

Lo stesso ritmo infine della poesia sembra suggerire quelle nenie che si recitano ai bambini per farli addormentare ma qui non c'è gioco fantastico, vi è tristezza, rassegnazione profonda: questa è una nenia per un sonno di morte.

Note [modifica]

  1. ^ Così Carducci descrive la morte improvvisa del figlio:
    «Il mio povero bambino mi è morto; morto di un versamento al cervello. Gli presero alcune febbri violente, con assopimento; si sveglia a un tratto la sera del passato giovedì (sono otto giorni), comincia a gittare orribili grida, spasmodiche, a tre a tre, come a colpi di martello, per mezz’ora: poi di nuovo, assopimento, rotto soltanto dalle smanie della febbre, da qualche lamento, poi da convulsioni e paralisi, poi dalla morte, ieri, mercoledì, a ore due» (lettera di G. Carducci al fratello Valfredo, 10 novembre 1870).
  2. ^ Un quinto figlio, Francesco, morì dopo pochi giorni dalla nascita.
  3. ^ Suicidatosi secondo la versione ufficiale, ma forse ucciso accidentalmente dal padre dopo un litigio secondo una più recente versione (in Musei di Santa Maria a Monte. Nel 1858 lo stesso padre si suicidò per il dolore o, forse, per il rimorso; entrambi vennero sepolti nel vecchio cimitero del paese, dove oggi sono ancora visibili le lapidi.
  4. ^ La fonte principale per l'analisi critica estetica della poesia è :Storia generale della Letteratura Italiana, Federico Motta Editore, Milano 2004, Vol.X pagg.568 e sgg. del saggio di Raffaele Sirri ivi contenuto.
  5. ^ Nell'antichità la melagrana era anche simbolo di fertilità, di nuova vita ma anche, specie nell'arte rinascimentale italiana, in Donatello, Michelozzo, Verrocchio, Rossellino ed altri, il simbolo della melagrana, motivo ornamentale diffuso anche nella scultura, soprattutto sepolcrale e nell’architettura classica, era anche simbolo di morte.

Il ritorno all'insegnamento

Riammesso all'insegnamento, gli venne affidato un incarico presso il liceo classico Niccolò Forteguerri di Pistoia dove insegnò per tutto il 1859 latino e greco.

Con decreto del 26 settembre 1860 venne incaricato, dall'allora ministro della Pubblica Istruzione Terenzio Mamiani Della Rovere, a tenere la cattedra di eloquenza italiana, in seguito chiamata Letteratura italiana presso l'Università di Bologna dove rimarrà in carica fino al 1904. Pubblicò nel frattempo Juvenilia, che raccoglie tutte le poesie del decennio precedente.

Nel 1863 pubblicò con lo pseudonimo di Enotrio Romano l' Inno a Satana che, pur ottenendo successo, fomentò vivaci polemiche. Sempre di quell'anno è la pubblicazione Delle poesie toscane di A. Poliziano.

La poesia laica

La sua poesia intanto, sotto l'influsso delle letterature straniere ed in particolare di quella francese e tedesca, divenne sempre più improntata di laicismo mentre le sue idee politiche andavano orientandosi in senso repubblicano. Oltre all' Inno a Satana pubblicò nel 1868 la raccolta maggiormente impegnata dal punto di vista politico: Levia Gravia.

Il legame alla massoneria

Nel 1866 vide la stampa il saggio Dante e l'età sua e Carducci divenne segretario della "Felsinea", una loggia massonica. Il legame alla massoneria e all'unione democratica gli costò come punizione la richiesta da parte del ministro Broglio del trasferimento alla cattedra di Letteratura latina di Napoli, trasferimento che Carducci rifiutò.
Ottenuta nel 1868 la revoca del trasferimento, venne sospeso dall'insegnamento per due mesi e gli venne tolto lo stipendio.

Nel 1870 morirono la madre e il figlio Dante di soli tre anni lasciandolo in un cupo dolore che cercò di alleviare con l'intenso lavoro letterario.

Poeta nazionale

Nel 1871 il poeta conobbe Carolina Cristofori (moglie dell'ex-garibaldino Domenico Piva e madre di Gino Piva), una donna ricca di ambizioni culturali, con la quale iniziò un fitto scambio epistolare sfociato nel 1872 in una relazione amorosa. Alla donna, chiamata Lina o Lidia nelle lettere e in alcune poesie, dedicherà molti dei suoi versi e fu proprio in questo periodo che la fama del poeta, come guida nazionale della cultura italiana, si consolidò. Di questi anni è l'ampia produzione poetica che verrà raccolta in Rime Nuove (1861-1887) e in Odi barbare (1877-1889).

Proseguì l'insegnamento universitario e alla sua scuola si formano personalità come Giovanni Pascoli, Severino Ferrari, Renato Serra, Alfredo Panzini, Manara Valgimigli ed Emma Tettoni[citazione necessaria].

Nel 1873 si recò per la prima volta a Roma e pubblicò A proposito di alcuni giudizi su A. Manzoni e Del rinnovamento letterario d'Italia.

Nel 1878, in occasione di una visita della famiglia reale a Bologna, scrisse l'Ode Alla Regina d'Italia in onore della regina Margherita, ammiratrice dei suoi versi e venne accusato di essersi convertito alla monarchia suscitando forti polemiche da parte dei repubblicani.

Negli anni che seguirono collaborò con il giornale "Fanfulla della Domenica" di impronta filo-governativa (1878), pubblicò le Nuove Odi Barbare e i Giambi ed epodi, collaborò alla Cronaca bizantina e lesse il famoso discorso Per la morte di Garibaldi (1882).
Sulla Cronaca bizantina uscirono nel 1883 i sonetti del Ça ira e nel 1887 pubblicò Rime nuove. Il corso che tenne all'Università nel 1888 sul poema Il giorno di Parini produsse l'importante saggio Storia del "Giorno" di G. Parini. Nel 1889, dopo la pubblicazione della terza edizione delle Odi Barbare, il poeta iniziò ad assemblare l'edizione delle sue Opere in venti volumi, lavoro che si concluse nel 1899.

La nomina a senatore

Nel 1890 venne nominato senatore e negli anni del suo mandato sostenne la politica di Crispi , che attuava un governo di stampo conservatore, anche dopo la sconfitta di Adua.
Conobbe in quello stesso anno la scrittrice Annie Vivanti con la quale instaurò un'intensa amicizia sentimentale.

Gli ultimi anni di vita

Nel 1899 pubblicò la sua ultima raccolta di versi, Rime e Ritmi, e nel 1904 fu costretto a lasciare l'insegnamento per motivi di salute. Nel 1906 l' Accademia di Svezia gli conferì il Premio Nobel per la letteratura, il primo ad un italiano.
La morte lo colse a Bologna il 16 febbraio del 1907. È sepolto alla Certosa di Bologna.

 

 

La mia poesia del cuore

 

DAVANTI SAN GUIDO

I cipressi di Bolgheri 

 


 

 

 

I cipressi che a Bólgheri alti e schietti
Van da San Guido in duplice filar,
Quasi in corsa giganti giovinetti
Mi balzarono incontro e mi guardâr.

Mi riconobbero, e - Ben torni omai -
Bisbigliaron vèr me co 'l capo chino -
Perché non scendi? perché non ristai?
Fresca è la sera e a te noto il cammino.

Oh sièditi a le nostre ombre odorate
Ove soffia dal mare il maestrale:
Ira non ti serbiam de le sassate
Tue d'una volta: oh, non facean già male!

Nidi portiamo ancor di rusignoli:
Deh perché fuggi rapido così
Le passere la sera intreccian voli
A noi d'intorno ancora. Oh resta qui!

Bei cipressetti, cipressetti miei,
Fedeli amici d'un tempo migliore,
Oh di che cuor con voi mi resterei -
Guardando io rispondeva - oh di che cuore!

Ma, cipressetti miei, lasciatem'ire:
Or non è più quel tempo e quell'età.
Se voi sapeste!... via, non fo per dire,
Ma oggi sono una celebrità.

E so legger di greco e di latino,
E scrivo e scrivo, e ho molte altre virtù;
Non son più, cipressetti, un birichino,
E sassi in specie non ne tiro più.

E massime a le piante. - Un mormorio
Pe' dubitanti vertici ondeggiò,
E il dì cadente con un ghigno pio
Tra i verdi cupi roseo brillò.

Intesi allora che i cipressi e il sole
Una gentil pietade avean di me,
E presto il mormorio si fe' parole:
Ben lo sappiamo: un pover uomo tu se'.

Ben lo sappiamo, e il vento ce lo disse
Che rapisce de gli uomini i sospir,
Come dentro al tuo petto eterne risse
Ardon che tu né sai né puoi lenir.

A le querce ed a noi qui puoi contare
L'umana tua tristezza e il vostro duol;
Vedi come pacato e azzurro è il mare,
Come ridente a lui discende il sol!

E come questo occaso è pien di voli,
Com'è allegro de' passeri il garrire!
A notte canteranno i rusignoli:
Rimanti, e i rei fantasmi oh non seguire;

I rei fantasmi che da' fondi neri
De i cuor vostri battuti dal pensier
Guizzan come da i vostri cimiteri
Putride fiamme innanzi al passegger.

Rimanti; e noi, dimani, a mezzo il giorno,
Che de le grandi querce a l'ombra stan
Ammusando i cavalli e intorno intorno
Tutto è silenzio ne l'ardente pian,

Ti canteremo noi cipressi i cori
Che vanno eterni fra la terra e il cielo:
Da quegli olmi le ninfe usciran fuori
Te ventilando co 'l lor bianco velo;

E Pan l'eterno che su l'erme alture
A quell'ora e ne i pian solingo va
Il dissidio, o mortal, de le tue cure
Ne la diva armonia sommergerà.

Ed io - Lontano, oltre Appennin, m'aspetta
La Tittì - rispondea -; lasciatem'ire.
È la Tittì come una passeretta,
Ma non ha penne per il suo vestire.

E mangia altro che bacche di cipresso;
Né io sono per anche un manzoniano
Che tiri quattro paghe per il lesso.
Addio, cipressi! addio, dolce mio piano!

Che vuoi che diciam dunque al cimitero
Dove la nonna tua sepolta sta? -
E fuggìano, e pareano un corteo nero
Che brontolando in fretta in fretta va.

Di cima al poggio allor, dal cimitero,
Giù de' cipressi per la verde via,
Alta, solenne, vestita di nero
Parvemi riveder nonna Lucia:

La signora Lucia, da la cui bocca,
Tra l'ondeggiar de i candidi capelli,
La favella toscana, ch'è sì sciocca
Nel manzonismo de gli stenterelli,

Canora discendea, co 'l mesto accento
De la Versilia che nel cuor mi sta,
Come da un sirventese del trecento,
Piena di forza e di soavità.

O nonna, o nonna! deh com'era bella
Quand'ero bimbo! ditemela ancor,
Ditela a quest'uom savio la novella
Di lei che cerca il suo perduto amor!

Sette paia di scarpe ho consumate
Di tutto ferro per te ritrovare:
Sette verghe di ferro ho logorate
Per appoggiarmi nel fatale andare:

Sette fiasche di lacrime ho colmate,
Sette lunghi anni, di lacrime amare:
Tu dormi a le mie grida disperate,
E il gallo canta, e non ti vuoi svegliare.

Deh come bella, o nonna, e come vera
È la novella ancor! Proprio così.
E quello che cercai mattina e sera
Tanti e tanti anni in vano, è forse qui,

Sotto questi cipressi, ove non spero,
Ove non penso di posarmi più:
Forse, nonna, è nel vostro cimitero
Tra quegli altri cipressi ermo là su.

Ansimando fuggìa la vaporiera
Mentr'io così piangeva entro il mio cuore;
E di polledri una leggiadra schiera
Annitrendo correa lieta al rumore.

Ma un asin bigio, rosicchiando un cardo
Rosso e turchino, non si scomodò:
Tutto quel chiasso ei non degnò d'un guardo
E a brucar serio e lento seguitò

Giosuè Carducci

 

Giosuè Carducci                                                                                                                                                                             

 

 


 

Commento

            Il poeta Giosuè Carducci sta viaggiando sulla linea  Pisa-Roma in treno ed immagina che i cipressi che in duplice filar vanno da Bolgheri a San Guido e dove lui giocava negli anni della sua fanciullezza, gli si facciano incontro e lo invitino a fermarsi. I cipressi alti e snelli, formando un viale, sembrano al poeta, che li guarda dal treno in corsa, giganti giovinetti che corrono verso di lui e lo guardano. Lo riconoscono e gli chiedono, chinandosi con la cima piegata dal vento, di fermarsi perché la sera è fresca e la strada è a lui nota. Lo invitano a fermarsi presso i loro alberi profumati, dove dal mare spira il vento maestrale e gli dicono che non conservano rancore per le sue “sassate” perché in fondo non facevano male. Portano ancora nidi di usignoli e si lamentano che lui si allontani così in fretta. I passeri intrecciano voli intorno a loro. Il poeta risponde ai cipressi, sinceri amici dell’infanzia, che egli giudica migliore dell’età adulta, che si fermerebbe volentieri, ma chiede loro di lasciarlo andare perché ormai è un uomo maturo e ironicamente dice che, non per vantarsi, è diventato un uomo importante che capisce il greco ed il latino, scrive, ha tanti pregi e virtù e soprattutto non è più un ragazzo vivace ed impertinente e non tira più sassate alle piante (ma casomai invettive e battute polemiche agli uomini del suo tempo). Attraverso le cime che ondeggiano mosse dal vento, come chi scuote la testa per esprimere un dubbio o dire di no, passa, come un’onda, un brontolio ed il sole, che sta tramontando con un sorriso pietoso (cioè un riso un poco ironico e malizioso, ma senza cattiveria), splende rossastro in mezzo al verde cupo della loro vegetazione. Il poeta capisce che i cipressi ed il sole hanno un sentimento di pietà per lui ed improvvisamente il mormorare delle piante si trasforma in parole distinte. I cipressi hanno capito che non è altro che un uomo tormentato dagli affanni e dalle delusioni della vita. Il vento porta via con sé l’eco dei sospiri degli uomini e conosce come dentro al petto del poeta brucino tormenti e passioni che egli non sa né può placare. Il poeta potrebbe raccontare alle querce ed ai cipressi la sua pena personale ed il dolore universale degli uomini in quel paesaggio in cui il sole scende sorridente sul mare calmo ed azzurro. Il tramonto è pieno do voli e di stridi di uccelli, di notte si sentiranno i canti melodiosi degli usignoli. Lo invitano a rimanere ed a non seguire le idee e le passioni vane che sono colpevoli dell’infelicità dell’uomo perché lo staccano dalla semplicità della vita naturale. Le passioni (i pensieri agitati, torbidi, tristi ed angosciosi) nascono dalle profondità dei cuori umani sconvolti dai pensieri come i fuochi fatui dei cimiteri (mettono tanta paura ma in realtà sono leggere fiamme vaganti prodotte dai gas che si sprigionano dove ci sono sostanze in putrefazione). Nell’ora del mezzogiorno (che per gli antichi era misteriosa e segreta), quando presso le querce i cavalli stanno nell’ombra muso a muso e intorno tutto è pace nella pianura assolata, i cipressi gli canteranno quelle armonie che cielo e terra si scambiano tra loro eternamente e le divinità silvane, che abitano i tronchi delle piante, usciranno dagli olmi per ristorarlo dalla calura e sospingerlo a sognare ed il dio Pane (dio dei boschi e dei pastori) che, a quell’ora se ne va errando senza compagnia per i monti e le pianure, placherà l’insanabile contrasto dei suoi affanni nella divina serenità della natura. Ma il poeta non si può fermare, a Bologna lo aspetta la figlioletta, la Tittì, piccola ancora e bisognosa di assistenza. Non si veste di piume come la passeretta a cui provvede madre natura, né si nutre di bacche di cipresso. A questo punto il poeta lancia una sassata polemica contro gli imitatori del Manzoni (quelli che in arte ed in politica si attenevano alle idee del Manzoni e principalmente accettavano le sue idee in fatto di lingua) che badano solo al guadagno e si accaparrano il maggior numero possibile di uffici e stipendi. Non essendo nel numero di costoro urge che il poeta si affretti ai suoi doveri di insegnante per provvedere ai bisogni della sua famiglia e lo fa con un saluto affettuoso e doloroso. I cipressi che hanno cercato di fermare il poeta con le lusinghe del paesaggio, cercano di fermarlo con il ricordo della nonna paterna tanto amata, Lucia Santini, morta nel 1843 e sepolta a Bolgheri. Al ricordo della nonna i “giganti giovinetti” si trasformano in un corteo funebre che si allontana mormorando. Dal dolce pendio per il verde viale dei cipressi ecco apparire al poeta alta e maestosa, vestita di nero, la nonna. Dalla sua bocca in mezzo ai bianchi capelli sgorgava la pura e schietta parlata toscana che molti non toscani imitano goffamente, con la malinconica e dolce inflessione della natia Versilia che è tanto cara al cuore del poeta. La lingua toscana, quando è parlata genuinamente, è nitida e soave come un antico componimento poetico (il sirventese era un antico metro poetico di origine provenzale che celebrava avvenimenti storici e poetici). Il poeta si rivolge al fantasma della nonna e vuole farsi raccontare, lui che con tutto il suo sapere non è riuscito a raggiungere, se non la felicità, almeno la tranquillità dell’animo, l’antica fiaba di “Amore e Psiche” (una fanciulla che aveva sposato un mostro ripugnante per volontà dei parenti, siccome viola il giuramento di non vederlo durante la notte quando riacquista il primitivo e bellissimo aspetto, viene abbandonata dal marito. Per ritrovarlo deve errare per il mondo per sette lunghi anni, consumare sette verghe di ferro per sorreggere i suo corpo stanco, colmare sette fiasche di lacrime… e quando finalmente ritrova lo sposo, questi è immerso in un profondo sonno, né a lei è possibile destarlo). Il Carducci modifica il finale del racconto originario che dice che lo sposo fuggiasco ritorna alla fanciulla commosso dai suoi sacrifici. Nella sorte della fanciulla abbandonata il poeta vede rispecchiata la propria sorte individuale di un uomo incapace di raggiungere gli ideali che si è proposto. Infatti continuando il discorso con la nonna dice che la favola non è soltanto bella, ma anche pena di amara verità. La felicità, la pace che ha cercato invano nei tanti anni è forse nella tranquillità del cimitero e della morte, sotto quel viale dove non soltanto spera, ma non pensa neppure più di fermarsi, ora che la vita lo ha ghermito con le sue necessità ed i suoi doveri. A questo punto la realtà lo riafferra, il treno corre ansimando affannosamente, mentre il poeta si sente triste e desolato. Una schiera di puledri, che in Maremma vivono liberamente nelle campagne, nitriscono, mettendosi a correre in gara con il treno, mentre un asino grigio continua con serietà e lentezza a mangiare il cardo dai fiori rosso turchino. La chiusura della poesia è simbolica: se il treno rappresenta il progresso o comunque la vita che va avanti ed i puledri sono l’immagine della giovinezza che insegue gioiosamente, ma vanamente, i sogni, la figura dell’asino può essere il simbolo degli uomini chiusi ad ogni ideale o anche della persona saggia che si accontenta delle cose che ha, senza lasciarsi distrarre dal chiasso e dai desideri inutili.